Negli ultimi decenni, in seguito al crescente ingresso delle donne in settori del mondo del lavoro e delle istituzioni tradizionalmente riservato agli uomini, sono entrate nell’uso della lingua italiana molte forme femminili che in precedenza erano usate solo al maschile: si tratta soprattutto di termini che indicano ruoli professionali o istituzionali di prestigio, come ministra, sindaca, chirurga, architetta, ingegnera.
Nonostante si tratti di forme corrette sul piano grammaticale, continua ad esserci una certa reticenza nei confronti del loro uso, atteggiamento spesso basato su ragioni di tipo culturale più che linguistico.
Recentemente la diatriba è tornata sulle prime pagine dei giornali quando la donna attualmente a capo del ministero della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, ha chiesto di essere chiamata ministro.
Per Cecilia Robustelli le dichiarazioni di Giulia Bongiorno sono discutibili per due ragioni:
- a suo parere la ministra non dovrebbe imporre una scelta linguistica, poiché la lingua non si impone;
- in secondo luogo essere chiamate con un titolo al maschile invocherebbe un concetto di parità tra i sessi ormai superato, "una parità come omologazione" in voga negli anni '70.